Ascoltare con gli occhi: le note che scivolano sulle partiture monocrome di Pierluigi Cattaneo ci guidano nella visualità musicale (comprende anche la contemplazione del silenzio) in cui si è avventurato negli ultimi anni, senza soluzione di continuità tra i pannelli a parete e le sculture che fondono architetture primarie e biomorfismi. Anche per i monocromi non si può però parlare di pittura-pittura, visto che ogni opera tende a oggetto-scultura con lievi incidenze e aggetti sulla superficie, fenditure e suture. I vari materiali sono impiegati come una struttura di colori, come strumenti di ritmo e di luce, cercando una struttura armonica. Tra bianche e ostinate caligini, notti di nero austero e ctonio, rossi infuocati e gialli sommessi, tentano di scivolare dentro un oscuro splendore, dentro uno spazio elastico. La vita è ricerca di equilibrio, costantemente disturbata da ferite e incidenti di percorso, sicché l’artista tutto piega all’armonia della forma, ma lasciando sempre irrompere rilievi, fessurazioni e lacerazioni come accidenti ed emozioni, sussulti e imprevisti.

Pierluigi Cattaneo s’è così avvicinato al minimalismo purista, a un’arte che modella anche le pause, i silenzi, tramite textures sottili di tele, reti e maglie metalliche, carte, cartoni ondulati e cartoncini increspati come filtri luminosi del colore, dove una smagliatura nel campo monocromo suscita un trasalimento, un lieve respiro per ottenere una variazione di intensità spazio-luce (la pittura/scultura si avvicina qui anche a una concettualizzazione, come fosse una sorta di diagramma mentale).

Nella ricerca di Cattaneo immediatamente precedente era soprattutto il frammento dilatato di un corpo femminile, tra evidenza e appiattimento, a scandire una partitura dei desideri e delle ossessioni, nell’idea della forza generante della donna come elemento primo del cosmo, che spinge alla metamorfosi continua. Già il mondo alluso appariva sospeso tra ordine e disordine, liscio e grezzo, misura e pulsione, nelle ibridazioni di forme “rubate” a conchiglie, impianti ossei e strutture muscolari chiamate a delineare, entro calotte lisce, il tema compositivo di interno-esterno, a restituire forme familiari e remotamente primigenie.

Allora voleva che il suo segno avesse la vitalità istintiva e necessaria d’un organo sessuale, d’un albero, di un volatile, di una donna: per questo già lo faceva uscire dalla superficie pittorica, da pannelli solcati da arabeschi ancora carichi di compiacimento decorativo, ma pronti a suggerire la geometria come esplorazione mercuriale, non come gabbia lineare, quasi a dire che la verità è legata al ritmo di espansione della materia nello spazio.

Ora le monodie variamente modulate sul nero, il bianco, il giallo, il rosso sono attraversate da ripetizioni o variazioni di un unico segno (o, meglio, ritmo), che si modifica come si modifica l’individuo che convive sempre con un doppio, su un crinale tra energia e quiete, tra ascesa e caduta, tra bene e male. Qui lo spettatore è intercettato dal sottile movimento musicale che increspa la pelle dei pannelli. Al movimento uniforme (di meditata, contenuta compostezza anche nelle smagliature) si unisce il vuoto: un limitarsi sulla soglia del senso, anche in polemica con un mondo fragoroso; ma proprio questa esplorazione lenta, sussurrata, dell’esperienza percettiva, si espande negli stati di coscienza.

E’ scomparsa ogni diretta impronta – che era insieme ansiosa e ironica – di sagome e ombre di un’unica architettura umana, tra corpo biologico e costruzioni d’un ordine concepito dall’uomo (ne reca qui memoria la scultura “ermafrodita” in resina smaltata “Autoerotismo”, 2007, ibrido tra l’organicità delle forme molli e la monumentalità “aere perennius” del cippo piramidale).

Ora tutto nasce nella dialettica del campo di colore, inerte e vischioso, fermentante e ansante, sotto un dominio della mente, una severa disciplina costruttiva. In fondo si parte dalla costruzione d’un sistema autonomo di segni, che rimanda a se stesso, risolvendo anche forma e spazio (e supporto) l’uno nell’altro. Nel corpo dell’opera si generano sbalzi e linee di frattura, o si fondono dittici e trittici come ante che spezzano la saturazione cromatica, per scalarla negli accidenti del divenire «raccontati» dal ritmo della partitura.

La dissoluzione delle precedenti apparizioni metamorfiche create con la materia dei sogni e degli istinti è ora un’impuntatura di pulsazioni erratiche, sottotraccia, come irretite entro una salda volontà di ritrovare una misura classica nell’equilibrio costruttivo, tra emozione e consapevole organizzazione del campo pittorico. Ma altrettanto l’autore dilata i confini del corpo e dell’anima, in sequenze di strutture costruite solo sulla percezione-sensazione fatta di luce e opacità che è il colore, depositario di tutto un immaginario personale e collettivo. Resta insomma un linguaggio che è insieme fluente e bloccato, metamorfico e architettonico.

Il colore monocorde è dunque anch’esso uno spessore, una levitazione d’una verità umana, nel lavorìo incessante sul crinale del “costruir dissolvendo”, che si fa e disfa nell’ordine geometrico-prospettico, nella sagomatura dei supporti e nel disordine dei moti del cuore. Perché quelle note musicali/incavi dell’orecchio sembrano anche battiti e oscillazioni del cuore, nella sagoma iconica più semplice e popolare.

Si può dunque tentare di progettare la forma dei colori e dei moti del cuore, un luogo sospeso che è campo di forze sempre diverse. Pierluigi Cattaneo vuole comunicarci questo, nelle sue contemplazioni silenti, nelle palpitazioni, nelle dosatissime variazioni plastiche e luminose: il riflesso d’una condizione dell’anima, e questo fa la pazienza della sua ricerca di un’ostinata armonia, attraverso lo sguardo lento, carico di risonanze e di tensioni percettive e sensitive. E’ una pittura/oggetto plastico che non vuole assomigliare al mondo ma si propone di rivelarlo per così dire per luoghi sorgivi, come in un balenare di fantasmi, di piccoli e grandi segreti nascosti nel corpo del colore.

Non c’è dubbio che tanti artisti prendano scorciatoie quando risolvono l’opera come semplice spazio del gesto, o come sommaria esercitazione di una sintassi elementare (colore, linea, superficie..), liberandosi una volta per tutte della faccenda del contenuto, ma qui Cattaneo è partito raccogliendo echi di certa tensione romantica verso l’assoluto, subito sentendo il bisogno di smorzarli, od oggettivarli nell’analisi della pittura come oggetto, materia e colore.

La ricerca è nata infatti, come sempre in quest’autore, da un’esperienza di vita (sia l’incontro con una persona, sia un viaggio, sia una occasione culturale) maturata in Austria, tra Linz e il vicino paese natale di Ansfelden, impregnati delle composizioni di Joseph Anton Bruckner 1824-1896, che nelle sue sinfonie, salmi, messe e lieder portò alle estreme conseguenze il processo di interiorizzazione della musica romantica con elementi di fissità ossessiva e di concentrazione mistica. Nei suoi lavori, Pierluigi Cattaneo ha proceduto analogamente al compositore, per larghi blocchi (i monocromi), definiti attraverso procedimenti di accumulazione di tensione (il campo cromatico costruito sulla diatonia liscio e ruvido, le insistite ripetizioni nel ritmo del supporto) e improvvisi rovelli e scintille. Ecco le note trascorrenti su tastiera, pentagramma, canne d’organo generare

strutture sempre più evanescenti, evocative, legate alla memoria, sempre più sfuggenti verso il cielo (un ri-sentirsi e ri-suonare nel consumarsi di tutte le cose e nell’espandersi dell’universo).

Due universi paralleli, l’arte plastico pittorica e l’arte della musica, l’uno dello spazio, l’altro del tempo, eppure Pierluigi Cattaneo tenta proprio di scivolare in un unico spaziotempo, attraverso un ritmo seduttivo e un flusso medianico.

L’integrazione tra linguaggio pittorico/plastico e tecnica musicale è sondata attraverso le regole formali che genera l’opera stessa, con lo stesso tipo di cadenze e variazioni, ritorni e ripetizioni. Tutta la densità del “racconto” è delegata ai rapporti tra i materiali, al controllo della grana e degli spessori pittorici, in un’evocazione di vaste distese e archetipi, di stele e di totem, a dire insieme il rinserrarsi e rilanciarsi delle “voci” degli uomini, e insieme il loro rifrangersi e disperdersi nel vasto silenzio, il vuoto. Nella “vanitas vanitatum”, constatando che l’esistenza ha diritto anche al suo spazio di mistero, di cose “mute”, perdute e cancellate per sempre. Così le opere, avvicinandosi al grado zero dell’immagine, sfidano la dimensione del trapasso dall’intensa musica della vita al silenzioso luogo della morte.

La “vanitas” del resto ben incarna la contraddizione del rapporto col tempo, tra il volerlo misurare, dominare, e l’essere nel tempo della fragilità e precarietà dell’esistenza, del consumarsi di pompe e illusioni umane. La materia dipinta resta stratificata, campo di colore arido e duro o porzione di muro o colonna attraversati dalle piccole o grandi ansie del mondo, ma in una sorta di contemplazione remota, davvero come frammenti perduti nel tempo, carichi di tutta la polvere dell’uomo. In fondo è la visione della finitudine della materia come l’ha fatta intendere a tanta arte contemporanea, con le sue “Attese”, un Lucio Fontana: «Finito l’uomo – diceva – continua l’infinito».

L’attuale ricerca di Pierluigi Cattaneo è interessante perché si è inoltrata dentro le contraddizioni e le aporie di quell’arte contemporanea che mentre presuppone un fondamento concreto, quasi sistematico e strutturale, al suo linguaggio, si trova sempre a fare i conti con una effusione, per cosìdire, più innervata di tensione interiore e di improvvisazione psichica.

La moralità di un’arte apparentemente ritornata ad una grammatica e sintassi elementari è proprio quella di nutrire di queste forze vitali, di questa risonanza spirituale ed esistenziale un campo di colore apparentemente vicino all’afasia, ma che si vuole prossimo a una verità originaria, ad una voce (un canto) nell’universo muto.

Lo strazio dell’arte, in rapporto al tempo, paiono dirci queste opere di Cattaneo, sta nel fatto che la direzione del tempo nella nostra esperienza quotidiana è quella d’una presenza che scorre inesorabile dal passato verso il futuro. Nella fisica tutto funziona altrettanto bene se il tempo scorre all’indietro, ma nel corso della vita la direzione è stabilita dalla fatale decadenza di noi mortali, nel mondo della storia, che non sopporta previsioni. Sicché non resta che provare a far coincidere la durata della forma con la durata della coscienza,
oltre i limiti dell’esistenza individuale, nel distendersi e ripiegarsi dello spazio, tra ansia di liberazione, di colore che vuole liberarsi nel cosmo, e senso di prigionia, di ineludibile affanno. L’annullamento del sé per avvicinarsi all’essenza di tutti gli altri, attraverso la meditazione, la disciplina che si fanno regola, diventa una forma di resistenza al senso della cancellazione totale. Qui il colore cela, nasconde, ma insieme rivela,laddove non è più superficie ma non è ancora del tutto volume.

Ecco, l’arte non è altro che questo spazio sommesso, paziente, di memoria del colore e della luce, di stupore sospeso tra l’essere e il nulla.

 

Brescia, gennaio 2012